¿Cómo viven los vivos con los muertos? Hasta que el capitalismo deshumanizó a la sociedad, todos los vivos esperaban la experiencia de la muerte. Era su futuro final. Los vivos eran en sí mismo incompletos. De esa forma vivos y muertos eran interdependientes. Siempre. Sólo una forma de egotismo extraordinariamente moderna rompió esa interdependencia. Con consecuencias desastrosas para los vivos, ahora pensamos en los muertos en términos de los eliminados.
Nello Ajello
Lucio Magri: dai cattolici allo strappo con el PCI, una storia a sinistra fuori dagli schemi
Lucio Magri, intelectual y militante histórico de la izquierda comunista italiana, ha muerto a la edad de 79 años en una clínica suiza. Y ha muerto porque lo ha decidido él, cuando y como quiso: el 28 de noviembre de 2011, mediante la forma del suicidio asistido mientras padecía una aguda depresión surgida a raíz de la muerte de su mujer Mara. Una decisión, pues, consciente y digna de un hombre que creyó, hasta el último instante de su vida, en la idea de autodeterminación individual y colectiva como engendradora de autonomía personal y de proyectos sociales emancipatorios. Magri nos ha dejado, y quien quiera conocer su trayectoria política podrá hacerlo leyendo su espléndido libro «El sastre de Ulm» (editado por El Viejo Topo y del que, en este boletín, se publicó el guión de las palabras del autor en la presentación en Barcelona), en el que meditó sobre la experiencia del comunismo del siglo XX a la que él se adhirió con la acción y el pensamiento.
Lucio Magri odiaba las necrológicas. Es por eso por lo que la redacción de Mientras tanto prefiere recordarle publicando el excelente retrato que le ha dedicado el periodista Nello Ajello y una apasionada reseña de Rossana Rossanda de «El sastre de Ulm», que dejamos en su versión original en lengua italiana. La misma lengua en la que, durante mucho tiempo, le leímos y escuchamos.
Addio compagno, ti sia lieve la terra.
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Un pilastro portante del “Manifesto”, rivista e partito. L’interprete d’una maniera di concepire la sinistra italiana diversa da ogni schema. Questo è stato in sintesi Lucio Magri. Ma è una sintesi che non esaurisce la singolarità del personaggio. Perché lui aveva, rispetto ai compagni della sua stagione dorata -dalla Rossanda a Pintor, da Natoli a Caprara, da Luciana Castellina a Valentino Parlato- un’origine più avventurosa. E, soprattutto, una preistoria precoce.
Precoce, Magri lo era stato in maniera spettacolare. Nato a Ferrara nel 1932 (e poi cresciuto a Bergamo), nei primi anni Cinquanta già figurava fra i redattori della rivista mensile “Per l’azione”, un organo dei giovani della Democrazia Cristiana (DC) cui si consentivano attacchi quasi temerari alle “brutture del capitalismo”. Del Magri di allora ci rimane un ritratto che ne fece anni fa Giuseppe Chiarante, suo amico d’una vita: “Era ammirato dalle compagne di scuola”, così egli ricorda, “per la sua presenza atletica e perché considerato molto bello”. Quello della prestanza fisica resterà per lui una costante. Che poi fosse interessato “alla politica” veniva dato per scontato. Quando, nel 1955, esce un altro periodico democristiano di sinistra, “Il Ribelle e il Conformista”, è lui, Magri, a condividerne di fatto la direzione con Carlo Leidi. Fu lì che appare a firma un articolo dal titolo “Bilancio del centrismo”, nel quale di delinea un’ipotesi di apertura a sinistra – “senza contemplare una contrapposizione” fra il Partito Socialista e quel Partito Comunista Italiano (PCI), che in casa democristiana è il nemico. Sta intanto per uscire un’ennesima rivista, “Il Dibattito politico”, che, legata all’orbita ideologica di Franco Rodano, è diretta da Mario Melloni, con condirettore Ugo Bartesaghi: per misurarne le qualità ereticali basti ricordare che i due saranno espulsi dalle file dello Scudo crociato per aver votato contro l’ingresso dell’Italia nell’Unione europea occidentale.
Il gruppo redazionale nel quale Magri esercita con passione il suo ruolo riunirà poi, accanto al solito Chiarante, intellettuali del rango di Ugo Baduel, Giorgio Bachelet, Edoardo Salzano (per citarne qualcuno). Programma dichiarato è “la ricerca delle necessità che sollecitano il mondo cattolico e quello comunista al dialogo”. Potrà un simile progetto attuarsi dentro la DC?. Magri e gli altri sono i primi a dubitarne. La diaspora verso “la sinistra storica” è nei fatti. La “vita democristiana” di Lucio Magri è stata breve e intensa: più lunghi saranno il tragitto verso il PCI e poi la permanenza in quel partito. Nell’estate del 1958, Giorgio Amendola, responsabile dell’organizzazione, lo riceve nel suo studio a Botteghe Oscure. Con Magri c’è il quasi gemello Chiarante. “Parlammo un po’ di tutto”, racconterà quest’ultimo. L’impressione dei due, che avevano sporto regolare domanda, fu che l’illustre ospite li ritenesse “forse non a torto, degli intellettuali un po’ astratti”. Gli raccomandò, comunque, “di avere delle esperienze di base”. Così avvenne. Magri se ne tornò a Bergamo, diventando prima segretario cittadino, e, due anni dopo, vicesegretario regionale. Poco più tardi, a Roma, prese a lavorare nell’ufficio studi economici. La sua fama tardava a diffondersi. Non bastava a consolidarla il fatto di essere vicino, come idee, a Pietro Ingrao: gli ingraianai erano tanti.
Lo aiutò alquanto l’amicizia della Rossana Rossanda, e fu Luciana Castellina a procurargli un visto d’ingresso in Polonia dove si svolgeva un’assise di giovani comunisti. In casa di Alfredo Reichlin conobbe Enrico Berlinguer, senza ricavarne alcun pronostico sulla sua successiva, luminosa carriera. Nel PCI si discuteva tanto. Fra i temi, il trauma causato dal XX Congresso, l’avvento di Krusciov. Non fu occasionale l’accoglienza che a Magri riservò il settimanale “Il Contemporaneo”, diretto da Salinari e Trombadori, pubblicandogli vari pezzi polemici. Nel novero delle “bestie nere” di Magri era entrato, accanto al capitalismo che aveva acuito le sue riserve nella fase DC, il riformismo come una forma di inerte ipocrisia a sinistra. Col tempo, nella galassia degli ingraiani più fattivi, il nome di Magri divenne di casa. Ma non fu certo suo esclusivo merito l’evento cruciale che stiamo per raccontare. Porta la data del 23 giugno 1969 l’arrivo in edicola, a Roma, della rivista “Il Manifesto”, che subito apparve un caso esemplare di eresia politica. Stampata a Bari dalla casa editrice Dedalo e diretta da Magri e Rossanda, il periodico è promosso anche da Luigi Pintor, Aldo Natoli, Massimo Caprara, Luciana Castellina, Valentino Parlato. Sulle prime, Magri vorrebbe chiamarlo “Il Principe”, ma poi rinunzia. In un suo volume, “Ritratti in rosso”, Massimo Caprara descriverà i responsabili dell’avventura: “Rossanda lucidamente egemone, Pintor imprevedibile, Natoli rigoroso”. A Magri assegna un superlativo: “ferratissimo”.
Ma che cosa c’è scritto nella rivista-scandalo, il cui primo numero ha venduto 50 mila copie? Si riserva un devoto rilievo alla “rivoluzione culturale” cinese. Si biasimano certi anticipi di “compromesso” fra PCI e DC. Sotto il titolo “Praga è sola”, si tesse un elogio della “primavera” di quella capitale, che Mosca ha represso. A Magri e Rossanda venne rivolto un vano invito a ritrattare. Rimbalzarono da “Rinascita” all’Unità” i preannunzi d’un “redde rationem” rivolto ai reprobi. La liturgia della repressione è macchinosa. Una Comissione, detta “la Quinta”, presieduta da Alessandro Natta, delibera la soppressione della rivista, ma la decisione viene delegata al Comitato centrale, dove Rossanda difende con dignità le posizioni del Manifesto. Alla fine, lo stesso Comitato centrale delibererà – è ormai il novembre ’69 – la “radiazione” dal PCI della stessa Rossanda, di Pintor e Natoli. Pene equivalenti vengono comminate a Caprara, Castellina e Parlato. Un analogo “provvedimento amministrativo” (vaghezza del lessico repressivo!) è applicato ai danni del “ferratissimo” Magri.
Fine anni Cinquanta: fuori dalla DC. Fine anni Sessanta: fuori dal PCI. Ma di Lucio Magri si continuerà a parlare. Almeno un po’. Nel settembre del 1977, sul Manifesto, egli attacca Berlinguer per la sua decisione di reprimere chiunque si collochi alla sinistra del PCI, e questa sua protesta trova l’appoggio di Norberto Bobbio (è Giuseppe Fiori a ricordare l’episodio nella sua biografia del leader sardo). Alla sinistra del PCI, egli di fatto era collocato, avendo assunto la segreteria del Partito di Unità Proletaria (PDUP), con il quale il gruppo del Manifesto s’era fuso. Nel 1984 lo si ritrova daccapo nel PCI, quando il PDUP vi confluisce. Sempre in Parlamento, a volte in questo o quel vertice di partito. Fino alla finale dissoluzione del PCI: Rimini, febbraio 1991. La scena mostra la patetica assise nella quale per pochi voti Achille Occhetto non viene eletto segretario del partito che subentrerà al PCI (vi sarà reintegrato poco più tardi). Chi era presente in quell’occasione conserva un’immagine di Lucio Magri. Lo ricorda in piedi, mentre, apprendendo l’esito delle votazioni, agita il pugno chiuso e scandisce un antico slogan: “Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse-tung!”.
La Repubblica, 29 de noviembre de 2011
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