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Los «momentos privilegiados» de Bernardo Bertolucci

Se rescata aquí un rico y vivo diálogo poético entre Pier Paolo Pasolini y un jovencísimo Bernardo Bertolucci. Un modo de recordar a este último distinto al de los abundantes obituarios que circulan estos días.

La iniciación de Bertolucci en cine se debió justamente a Pasolini, quien le convirtió en «ayudante de dirección» de Accatone. Se habían conocido poco antes en Roma, en 1959. Bernardo tenía 19 años y Pasolini 37. La familia Pasolini se trasladó al mismo edificio de los Bertolucci, habida cuenta de la amistad que unía a Pier Paolo, desde su llegada a Roma en 1950, con el padre de Bernardo, el gran poeta Attilio Bertolucci.

El primer poema, que se ha preferido dejar en su lengua original, está dedicado a Bernardo. Como joven de su tiempo, es tomado por Pasolini como vehículo de una contraposición entre un pasado campesino, repleto de ilusiones dejadas atrás con el traslado a Roma (y ahí emerge la figura de otro joven, su hermano Guido asesinado en 1945 en un trágico incidente entre partisanos) y el presente simbolizado en una Roma que Pasolini irá descubriendo a partir de un primer sentimiento de repliegue interno (que más adelante, tras la consolidación de la transformación consumista de Italia, reaparecerá con fuerza).

Le sigue otro poema en italiano de Bertolucci, a modo de respuesta, y (ya en prosa y traducido) el recuerdo posterior de aquella relación tan decisiva en la brillante y vitalista trayectoria de este comunista que nos dejó el pasado 25 de noviembre.

 

***

 

A un ragazzo (1956-1957)

En P. P. Pasolini, La religione del mio tempo (1961)

 

Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi

che tornano su Roma, e che a noi altrove

 

ancorati a una luce d’altri tempi,

sembrano portati da inutili venti,

 

tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza

pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.

 

Col sorriso confuso di chi la timidezza

e l’acerbità sopporta con allegrezza,

 

vieni tra gli amici adulti e fieramente

umile, ardentemente muto, siedi attento

 

alle nostre ironie, alle nostre passioni.

Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,

 

vergognandoti quasi del tuo cuore festoso…

Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,

 

ma perché esiste: per te, perché tu sia

nuovo testimone, dolce-contento al quia…

 

Rimani tra noi, discreto per pochi minuti

e, benché timido, parli, con i modi già acuti

 

dell’ilare, paterna e precoce saggezza.

Esponi, orgoglioso, la tua debolezza

 

di adolescente, leso appena al ridicolo

che ha la troppa umiltà in un mondo nemico…

 

Al giusto momento, ci lasci, ritorni

alla segreta luce dei tuoi primi giorni:

 

alla luce che certo tu non puoi dire

né, noi, ricordare, una luce d’aprile

 

in cui la coscienza con le sue gemme sfiora

solo la vita, non la storia ancora.

 

Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi

o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,

 

o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi,

ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,

 

se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi

ormai siamo, vuoi che le perdute notti

 

del nostro tempo siano come la tua fantasia

pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia

 

la parte di vita che noi abbiamo spesa

disperati ragazzi in una patria offesa.

 

Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni

– tra macerie, strade deserte e prigioni –

 

delle nostre figure per te ormai remote.

Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,

 

tu, così puro, il male, così limpido l’odio,

ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi

 

l’occhio ferito, parteggiando intero

per chi lottava in nome del sentimento vero.

 

Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato

da quell’avventura, in che cosa è mutato

 

lo spirito di questa povera nazione

dove provi tra noi la tua prima passione;

 

sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa

e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa

 

trovino nel tuo dolce desiderio di vita…

Vuoi sapere l’origine della tua pudica

 

voglia di sapere, s’essa ha già dato prova

di tanta vita in noi, e adesso cova

 

già nuova vita in te, nei tuoi coetanei.

Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,

 

da noi scoperta e da te trovata,

grazia anch’essa, nella terra rinata.

 

Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto

su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.

 

La risposta, se c’è, è nella pura

aria del crepuscolo, accesa sulle mura

 

del Vascello, lungo le palazzine

assiepate nel cuore del sole che declina.

 

Le sere disperate per il troppo tepore

che nei freddi autunni, dimenticato muore,

 

o, dimenticato, in nuove primavere

torna improvviso – le disperate sere

 

in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi,

o il fresco appuntamento con giovani modesti

 

come te, e felici, esci svelto di casa,

mentre nel rione suona la sera invasa

 

dall’ultimo sole – penso a quel serio, candido

ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.

 

Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere,

se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.

 

Era un mattino in cui sognava ignara

nei rósi orizzonti una luce di mare:

 

ogni filo d’erba come cresciuto a stento

era un filo di quello splendore opaco e immenso.

 

Venivamo in silenzio per il nascosto argine

lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi

 

del nostro ultimo sonno in comune nel nudo

granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.

 

In fondo Casarsa biancheggiava esanime

nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;

 

e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti,

la stazione era vuota: oltre i radi tronchi

 

dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba

del binario, attendeva il treno di Spilimbergo…

 

L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta,

dove dentro un libro di Montale era stretta

 

tra pochi panni, la sua rivoltella,

nel bianco colore dell’aria e della terra.

 

Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta

ch’era stata mia, la nuca giovinetta…

 

Ritornai indietro per la strada ardente

sull’erba del marzo nel sole innocente;

 

la roggia tra il fango verde d’ortiche

taceva a una pace di primavere antiche,

 

e i rinati radicchi da cui vaporava

un odore spento e acuto di rugiada,

 

coprivano il dorso della vecchia scarpata

grande come la terra nell’aria riscaldata.

 

Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna:

liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana

 

pace del lavoro, nel parlante amore muti,

tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,

 

vigne e casolari azzurri di solfato, –

nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.

 

Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro,

legati a quel dolore che ancora oscura il petto.

 

Ci togli questa luce che a te splende intera,

ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera…

 

Noi invecchiati ora nient’altro diamo

che doloroso amore alla tua lieta fame.

 

Anche la tua stessa pietà, che cosa dice

se non che la vita solo in te è felice?

 

Perché, per fortuna, quel nostro passato,

vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.

 

In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi

di esso solo quanto può adesso valerti…

 

Nella tua nuova vita non è esistito mai

fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai

 

perché vuoi sapere: esiste solamente

in te come un crudele dolce fiore il presente.

 

Che tutto sia davvero rinato – e finito –

sia tutto – è scritto nel tuo sorriso amico.

 

È vizio il ricordare, anche se è dovere;

a quei morti mattini, a quelle morte sere

 

di dodici anni or sono, non sai se più rancore

o nostalgia, leghi il nostro cuore…

 

L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza,

voce che contraddice la vitale presenza!

 

Fosse, com’è in te, la spietata gioia

di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!

 

Ciò che potevamo risponderti è perduto.

Può parlarti – se, tu ragazzo, sai il muto

 

suo nuovo linguaggio di ragazzo – soltanto

chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto…

 

Era ormai quasi estate, e i più bei colori

ardevano nel mite, friulano sole.

 

Il grano già alto era una bandiera

stesa sulla terra, e il vento la muoveva

 

fra le tenere luci, riapparse a ricolmare

di festa antica l’aria tra i monti e il mare.

 

Tutti erano pieni di disperata gioia:

sulla tiepida polvere delle vie ballatoi

 

e balconi tremavano di fazzoletti rossi

e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi

 

bande di ragazzi andavano felici

da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.

 

Mio fratello non c’era, e io non potevo

urlare di dolore, era troppo breve

 

la strada verso il granaio perso nei campi, dove

per un anno l’ingenua, eternamente giovane,

 

povera nostra mamma aveva atteso, e ora

era lì che attendeva, sotto il tiepido sole…

 

Ma ha ragione la vita che è in te: la morte,

ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.

 

Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo

voler sapere col tuo cuore che si ingemma.

 

Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna

sempre più tempo, allenta ogni legame

 

con la vita che, ancora, un’amara forza

a vivere e capire invano ci conforta…

 

Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto,

finirà non chiesto, si perderà non detto.

 

***

 

A PASOLINI

B. Bertolucci

 

Vicino a te, timida come una sposa

era la mia emozione l’unica spia

dell’umiltà provinciale che riposa

in me, che scopro fragile poesia.

 

Per questo ho potuto vedere

nei tuoi giovinetti il tesoro

del sesso salvarsi: e cadere,

traditi, per una culpa non loro,

 

propio quei giovinetti in cui l‘asprezza

dei sensi m’era parsa una salvezza.

 

Ma se poi ti allontani e nei tuoi versi

la disperazione è furia, la speranza polvere,

non vedo per i tuoi giovinetti diversi

stracci, dagli antichi, in cui vivere,

 

se tu non sei come me, come noi,

comunista nell’anima, sulla pelle,

se non ci aiuti tu che puoi e vuoi

farlo. Usa la tua ribelle

passione per i giovinetti traditi

se non per noi poveri borghesi pentiti.

 

***

 

Nadie podrá describir, jamás, aquellos que quiero llamar mis momentos privilegiados. En cuanto supe escribir, me puse a escribir poemas. Mi padre fue el primer (y único) lector y mi generoso e implacable crítico.

Hacia los dieciséis años, mi producción poética se había ido empobreciendo. «Te estás estancando…», me pinchaba mi padre. La verdad es que durante el verano había rodado mi primera película, El teleférico, diez minutos en dieciséis milímetros, la iniciación correcta para un director adolescente. Pero también mi primer y desconcertante descubrimiento de que existía una alternativa a la poesía, que a esas alturas, para el hijo de un poeta, se había convertido en una trampa resbaladiza.

En 1959 la familia Pasolini (Pier Paolo, Susanna y Graziela Chiarcosi) se mudó a la via Carini 45. Nosotros estábamos en el quinto piso, ellos en el primero. Reemprendí la escritura de poemas para poder llamar a la puerta de Pier Paolo y hacérselos leer. Apenas había escrito uno bajaba las escaleras a grandes saltos, hoja en mano. Él era muy ágil leyéndolos y emitiendo su juicio. La operación entera no duraba más de cinco minutos. En mi interior, comencé a llamar a aquellos encuentros «momentos privilegiados». De ahí salió un grupo de poemas que Pier Paolo, tres años después, me animó a publicar. A saber cómo se lo tomaría mi padre, degradado sin mediar palabra a lector número dos.

B. Bertolucci

 

***

 

[Textos extraídos del Centro Studi Pier Paolo Pasolini di Casarsa delle Delizie: http://www.centrostudipierpaolopasolinicasarsa.it/molteniblog/a-un-ragazzo-dedicata-a-bernardo-bertolucci-che-risponde-con-una-sua-poesia/ Introducción y traducción de AGM]

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11 /

2018

¿Cómo viven los vivos con los muertos? Hasta que el capitalismo deshumanizó a la sociedad, todos los vivos esperaban la experiencia de la muerte. Era su futuro final. Los vivos eran en sí mismo incompletos. De esa forma vivos y muertos eran interdependientes. Siempre. Sólo una forma de egotismo extraordinariamente moderna rompió esa interdependencia. Con consecuencias desastrosas para los vivos, ahora pensamos en los muertos en términos de los eliminados.

John Berger
Doce tesis sobre la economia de los muertos (1994)

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